Dal punto di vista della tradizione italiana del restauro, questa biblioteca chiusa e labirintica può essere letta come una forma estrema di tutela che si emancipa dalla fruizione. La conservazione diventa così escludente; il patrimonio viene sottratto all’uso, confiscato da un’autorità che pretende di proteggerlo separandolo dalla vita e dalla storia.
La distruzione finale non è un incidente narrativo, ma l’esito coerente di un sistema fondato sull’assolutizzazione della tutela. Come avrebbe ricordato Cesare Brandi, la conservazione non può mai ridursi alla mera sopravvivenza materiale dell’opera, né alla sua sottrazione al tempo e all’esperienza. Un bene culturale esiste solo nella dialettica fra istanza storica e istanza estetica, e dunque nella possibilità di essere conosciuto, interpretato e trasmesso.
Il rogo della biblioteca diventa allora una potente metafora critica: quando la tutela si separa dalla conoscenza, quando la protezione si trasforma in interdizione, il restauro cessa di essere un atto culturale per diventare un gesto difensivo e, infine, distruttivo.
Per chi opera oggi nel campo della conservazione e del restauro, Il nome della rosa pone una questione ancora centrale nel dibattito italiano: fino a che punto la tutela assoluta non rischia di produrre l’effetto opposto a quello che dichiara di perseguire? Tra accesso indiscriminato e chiusura dogmatica, il restauro è chiamato a costruire un equilibrio critico, etico e operativo, consapevole che il sapere non condiviso è un sapere destinato a scomparire.
Luis Cercos, Parigi, dicembre 2025



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